AGLIANICO. DAL NOME AL SAPORE

Testo di Manuela Piancastelli

da “Veronelli EV”, 70, aprile-maggio 2003, pp. 57-58.


L’Aglianico, uno dei vitigni più antichi del Mezzogiorno, faceva certamente parte del “corredo base” di quei Greci  provenienti dall’Eubea che nel 730 a.C. – dopo 40 anni di traffici commerciali nell’emporium di Pithecusa, l’attuale Ischia – fondarono la colonia di Cuma, mutuando il nome di quella che diventerà l’avamposto della civiltà occidentale, il centro da cui si irradiò la scrittura e la cultura ellenica, dalla parola onda, κυμα, Kuma. Per l’appunto. Era l’epoca delle Tirannidi e i Greci che giunsero a Cuma, sfuggendo alla guerra civile in patria, portavano con loro il sogno della libertà, di un governo giusto, della pace e della democrazia. Una libertà che si conquistava anche attraverso il potere di raccontare per tramandare, cioè attraverso la scrittura. Nella cultura greca il vino ricopre un posto (anche simbolico) primario. Lo testimonia tra l’altro la celeberrima Coppa di Nestore risalente a 2800 anni fa e scoperta proprio ad Ischia da Buchner, sulla quale è graffito l’epigramma: “La coppa di Nestore è buona a berci… ma chi beva da questa coppa subito sarà preso dal desiderio per la ben coronata Afrodite”. E ne è prova il fatto che gran parte dei vitigni ancora oggi coltivati in quella che fu la Magna Grecia sono di origine, appunto, greca: dall’Aglianico alla Falanghina, dal Greco al Fiano fino, probabilmente, alla stessa Biancolella ischitana. Perciò non ci ha mai convinto troppo l’ipotesi etimologica della parola aglianico, che si vorrebbe derivata da hellanico, ossia greco. Gran parte delle uve meridionali sono appunto greche, elleniche. Ancora oggi le tecniche di allevamento (ad alberello) e quelle di pota (cordone speronato), proprie dell’antica Grecia, sono le più diffuse. Insomma, un po’ tutta la viticoltura del Sud è hellanica: perché dunque l’aglianico conserverebbe più di altri, nel nome, la caratteristica di provenienza geografica? E ci siamo messi a ragionare. Se i greci, da quel che sappiamo dalla letteratura antica, amavano esprimere i dettagli, dare nome alle cose descrivendo le caratteristiche della cosa stessa, nomen omen per dirla alla latina, perché proprio con il vino, bevanda sacra, sarebbero stati così generici da non appellare in alcun modo un vitigno lasciando ai posteri la sola possibilità di riconoscerlo come ellenico? E dunque che cosa potrebbe significare aglianico? Proviamo a sezionare il lemma aglianico. Innanzitutto la a: un’alfa privativa. Cioè senza qualcosa. Che cosa?  γλυκος, glucos (zucchero, dove la u si leggeva iu) o meglio γλευκινος, gleiukinos, zuccherino, riferito soprattutto a mosto (Luciano Sofista, Aristotele e Plinio, quindi fino al I sec. d.C.). L’aggettivo αγλευκης, agleukes, nel significato di “amaro, non dolce” è presente ancora in Aristotele e Luciano. Se dunque alla parola αγλευκινος, agleukinos aggiungiamo il suffisso ικος, icos – proprio degli aggettivi – abbiamo αγλευκινοςικος, agleukinosicos. La s fra γλευκινος e ικος (gleukinos e icos) cade, dunque siamo ad αγλευκινοικος, agleukinosicos. Fra i due dittonghi ευ e οι (eu e oi) cade per cacofonia il κι, ki ed ecco rimasto αγλευνοικος, agleunoicos. Οι, Oi nella vulgata diventa i lunga come s’inventarono la breve e la lunga del dittongo  ευ, eu diventando ια, ia. Questo significa anche che la g si trasforma da suono duro in suono dolce. Siamo arrivati alla parola aglianicos, ovvero αγλιανικος, aglianico. Non è un caso che ancora oggi l’aglianico sia anche chiamato nel Beneventano aglianico amaro, un aggettivo che, di fatto, tradurrebbe il sostantivo. Così come è ipotizzabile che l’altro sinonimo, aglianicone, derivi da un’ulteriore crasi fra αγλιανικος e οιυος (aglianicos e oinos) (vino). Come si sa, l’aglianico è un vino ostico, che matura tardi e dai tannini potenti, tanto che “domarlo” comporta tecnica e molti anni di maturazione tanto che, da giovane, regala ben poche emozioni. Dunque non è improbabile che fosse noto proprio come “vino amaro”. Che poi proprio questa “amarezza” si trasformi poi in eccezionale corpo e morbidezza col tempo è solo un’ulteriore virtù che conferma la dolcezza, è il caso di dirlo, della maturità. Giacché come dicevano gli antichi: “Vino amaro, tienlo caro”.