AUTORE: Giovanni Balducci [1];

EPOCA: 1599;

CARATTERISTICHE: Olio su tavola (cm. 265x197).

 

La Vergine del Rosario, è un’immagine diffusa a partire dal 1571, dopo l'istituzione della festa della Beata Vergine della Vittoria, legata alla celebre battaglia di Lepanto, ad opera di san Pio V, il papa domenicano che incarnò lo spirito stesso della Controriforma Cattolica, il titolo fu cambiato da papa Gregorio XIII, nel 1573, in quello della Madonna del Rosario. 

 

  • CENNI STORICI

La storia di questa icona è molto interessante, innanzitutto l’autore: Giovanni Balducci detto "Il Cosci" (il nome “Cosci” deriva da quello dello zio materno Raffaello Cosci presso cui il pittore fu allevato), artista che da Firenze sua città natale si era trasferito dapprima a Roma al seguito del cardinale Alessandro de' Medici dove, nel 1593, fu ammesso all’Accademia del disegno di s. Luca, sotto la protezione del cardinale Federico Borromeo [immortalato dal Manzoni nei “Promessi Sposi” al capitolo XXII, egli è cugino di s. Carlo Borromeo], già lì il pittore aveva fatto vedere le sue doti di grande artista, nel 1597 preferì “[…] andossene alla città di Napoli in servizio del cardinale Alfonso Gesualdo […]”, che da subito lo ebbe a cuore e lo prese sotto la sua ala protettrice. L’artista fiorentino affrescò il palazzo, che questi (i Gesualdo) occupavano in piazza s. Domenico Maggiore; proprio perché era praticamente di casa, il cardinale gli ordinò di eseguire un’opera che gli ricordasse l’adorato nipote Alfonsino, figlio secondogenito di Carlo. Si può essere certi delle fisionomie dei personaggi, perché il Balducci era molto celebre per la sua “memoria visiva” (quindi aveva certamente visto di persona, quasi tutti i personaggi) ed era anche un pittore ripetitivo nella sua arte.

 

Nell’ottobre 1598, il cardinale si era allontanato da Napoli (scrive in una lettera indirizzata a Cesare d’Este) “[…] per venire a basciar le mani […] et a vedere et gustare di don Alfonsino, in Gesualdo, […] et vi godo una contentezza et consolatione veramente inesplicabile […]. Non lasciarò poi anco di soggiungere che don Alfonsino fa a gara con la S.ra Principessa sua madre in darmi contenti et gusti et io insieme con il Sig.re Principe lo sento incredibile, vedendoci dinanzi un frutto così bello e così degno della madre et di quella Serenissima casa […]” [2]. Quindi dopo pochi mesi (siamo nel 1599), l’artista esegue la grande e splendida opera, dove raffigura una delle casate più importanti del Regno di Napoli, nonché Grandi di Spagna, i Gesualdo. La pala viene sistemata nel loro palazzo partenopeo.

 

Purtroppo nel 1600, il piccolo Alfonsino muore, dopo poco il 14 febbraio 1603, muore anche lo zio, il cardinale Alfonso. All’estremo saluto il principe Carlo non può partecipare perché è tenuto a letto, nel palazzo di Taurasi, da una “grave indispositione”, erede universale dei beni è proprio lui, ad Eleonora “nepoti dilectissimae” va un anello con rubino e “[…] unum quadrum picturae ut dicitur de devotione ad eius electionem […]” [3] . La pala entra così in possesso di Eleonora d’Este, che dopo le morti di Emanuele, per un banale incidente di caccia e soprattutto del marito Carlo, avvenute nel 1613 e prima di partire alla volta di Modena dove si rinchiuderà in convento, la donerà ai pp. Domenicani per la loro chiesa del ss. Rosario in Taurasi e per quella occasione che “[…] il Magnifico Giannantonio Gonnella lega all’Arciprete e al Sindaco di Taurasi 180 ducati e dippiù tutto il denaro che si ricaverà dalla vendita dei suoi mobili per la Jcone dell’Altare Maggiore, opera che ognuno conosce del celeberrimo Giovan Zincaro. […] [4]”.

 

Al di là del suo straordinario pregio artistico, l’interesse per quest’opera è consistita anche nell'essere stata oggetto di una vicenda di attribuzioni molto complicata, che si è semplificata e chiarita una volta per sempre. Lo Zigarelli, che vide de visu l’opera, scrisse: “Ha inoltre Taurasi un’altra pubblica chiesa sotto la invocazione del Ss. Rosario, adorna anche di buoni marmi e pitture, tra cui un gran quadro della Vergine con attorno tutti i misteri della Passione del Redentore, opera inapprezzabile dello Zingaro, e nel di sotto la famiglia tutta Ludovisio de’ principi di Piombino, signora del luogo, per avervi essa edificato l’attiguo convento de’ soppressi pp. Domenicani […]" [5]. Quindi, egli la attribuì ad un celebre artista chiamato “Zingaro”, sicuramente un soprannome, nella storia dell’arte vi è un Antonio Solario detto lo "Zingaro" [6], potrebbe essere vero, se non per il fatto che, l'attività dell’artista, è normalmente documentata nell'Italia centro-meridionale fra il 1502 e il 1514, ma ha errato, anche, per quanto riguarda la famiglia, i Ludovisi sono stati poco più che meteore nella storia taurasina (furono feudatari dal 1636 al 1668), che interesse avrebbero avuto a far confezionare una così grande opera? Il convento fu edificato (nel 1582) dai Gesualdo, come chiaramente si capisce dal loro stemma presente nella chiesa. L’involontario equivoco è dovuto a quel “Zincaro” come riporta la pergamena detta dei “Benefattori”, iniziata a scrivere alcuni secoli dopo la fondazione della chiesa. L’ignoto amanuense domenicano, molto preciso, nel ricordare le vicende passate, riporta "Giovan" e lo nomina "Zincaro", certamente aveva visto delle opere di questo grande maestro nella chiesa di s. Domenico Maggiore a Napoli e il Balducci né ricordava lo stile. Ma bisogna aggiungere che "Zingaro" è di colui soggetto a continui trasferimenti o cambiamenti di sede, come nel caso, proprio, del Balducci, da Firenze a Roma ed infine a Napoli.

 

Ancora, l’opera, ad inizio degli anni ’70 è stata sottoposta a restauro da parte della Sovrintendenza alle Belle Arti, che ne ha riportato alla luce l’antico splendore, ma durante i lavori malauguratamente non è comparsa nessuna firma, praticamente è di “autore ignoto”. L'opera la attribuiamo (per la verità storica l'attribuzione è del carissimo Rinaldo de Angelis) a Giovanni Balducci [7], innanzitutto per quel “celeberrimo Giovan” di cui sopra, poi confrontandola con un'altra tavola di questo autore detta "Il perdono" (dipinta nel 1609) e conservata nella chiesa di santa Maria delle Grazie in Gesualdo, tavola che rappresenta la continuazione di questa di Taurasi, come fosse, per intenderci, il secondo tempo di un film.

 

  • DESCRIZIONE

In quest’opera, convivono echi del classicismo quattrocentesco, soprattutto nella resa dei volti, con i caratteri più apertamente devozionali della pittura sacra fiorentina, dominata dall’influenza di Santi di Tito e il colorismo di ascendenza veneziana e la luce caravaggesca sono piegati a una composizione di tono classico, essa si inserisce perfettamente nello stile barocco, rappresentato da contrasti molto forti, tra il nero dello sfondo e i colori dei personaggi. 

 

Ma cosa raffigura la tavola: come da tradizione nella parte superiore vi è la Beata Vergine del Rosario, con veste rosa e manto blu, con il Bambino ignudo in grembo, in atto di porgere la corona del ss. Rosario a s. Domenico de Guzmán inginocchiato alla sua destra, riconoscibile dal suo attributo, un ramo di giglio bianco fiorito, simbolo di castità, posto quasi al centro dell’icona, mentre alla sua sinistra vi è s. Caterina da Siena, che nella mano sinistra tiene un giglio, simbolo della sua purezza e con la destra stringe un cuore, sua peculiarità. Intorno, sempre nella parte alta del quadro, vi sono figure di santi (seminascosti), Tommaso de Aquino, riconoscibile dal sole e Pietro, primo martire domenicano, riconoscibile dalla mannaia conficcata sulla testa che gli sfondò il cranio e tiene la palma del martirio [8].

Secondo una leggenda, la preghiera del Rosario nella versione che ancora attualmente si recita fu ispirata dalla stessa Madonna, che apparve a s. Domenico nel 1214, consegnandogli la prima corona del Rosario come strumento miracoloso per la conversione dei peccatori, dei non credenti e degli eretici. In realtà la preghiera si diffuse dopo il 1470.

 

Nella parte inferiore del dipinto vi è rappresentato la figura del committente e gli altri componenti della nobile casata dei Gesualdo, signori di Taurasi, in primo piano a destra per chi guarda, inginocchiato in atto di adorazione è il principe Carlo (Taurasi, 1566-Gesualdo, 1613), segue lo zio Alfonso (Calitri, 1540-Napoli, 1603), cardinale di Santa Romana Chiesa e arcivescovo di Napoli, lo abbiamo interpretato per la tunica rossa adagiata sulle spalle, nonché confrontando nuovamente la nostra pala con quella di Gesualdo, detta “Il Perdono”, dove è presente s. Carlo Borromeo. In secondo piano (si vede solo la testa) è il padre di Carlo, Fabrizio II (Napoli, 1537-Venosa, 1593), nell’angolino (è visibile solo la fronte), è il nonno di Carlo, Luigi IV (Napoli, 1507-Venosa, 1584).

 

Per le donne poste a sinistra per chi guarda, inginocchiata in atto di adorazione è Eleonora [Leonora] d’Este (Ferrara, 1561-Modena, 1637), la madre di Carlo Geronima Borromeo (Milano, 1542-Venosa, 1587), sorella di s. Carlo e nell’angolo (si vede solo metà viso), la nonna di Carlo, Isabella Ferrillo (…-Conza, 1571); ed è molto interessante la presenza dei due bimbi che giocano, che sono i figli di Carlo: Alfonsino (Ferrara, 1595-Gesualdo, 1600), tenuto in braccio da una "governante" (il particolare che incuriosisce, è che ha lo sguardo rivolto verso Eleonora ed è l'unica a non guardare in alto e a non osservare la Vergine) ed Emanuele (Napoli, 1588-Torella, 1613), seduto per terra. La tavola è circondata da 15 loculi, separati da una medesima decorazione, che rappresentano i "Misteri" su cui meditare con la preghiera del rosario sono i vari momenti della vita di Cristo e della Vergine, vi sono poi in alto agli angoli altri 2 loculi con motivi floreali.

L’opera quindi, per il suo stile, è perfettamente coerente con l'arte controriformata [9].

 

  • UBICAZIONE

L’icona è racchiusa in una elegante cornice in legno dorato, formata da due colonne laterali e da un architrave con volute fogliacee ed è sistemata ad di sopra del bellissimo Altare Maggiore, incorniciato da lesene lisce con capitelli corinzi sormontati da un timpano ricurvo con decorazioni in stucco bianco, di epoca più moderna.

 

  • STATO DI CONSERVAZIONE

L'opera si trova oggi in buono stato di conservazione.

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[1] Giovanni Balducci (Firenze, 1560 - Napoli, dopo il 1631), pittore controriformato. Si formò a bottega da Giovan Battista Naldini, a sua volta influenzato da Giorgio Vasari e dal tardo manierismo fiorentino. Tra il 1575 e il 1579 collaborò con Federico Zuccaro al completamento degli affreschi del Giudizio Universale della cupola di santa Maria del Fiore a Firenze. Si iscrisse all'Accademia delle Arti del Disegno nel 1578. Nel 1577 e nel 1580 lavorò con il Naldini agli affreschi nella Cappella Altoviti della chiesa di Trinità dei Monti a Roma. Tornato a Firenze, prese parte al gruppo di artisti capeggiati da Alessandro Allori che decorarono i soffitti dei corridoi all'ultimo piano degli Uffizi. Per le nozze di Ferdinando I de' Medici con Cristina di Lorena fu mobilitato, al pari di quasi tutte le botteghe di pittori della città, alla creazione di apparati e scenografie magnificenti. In particolare prestò la sua opera in santa Maria del Fiore, dove rimane un'Ultima Cena da lui dipinta. Lo stesso anno dipinse il matrimonio mistico di Santa Caterina che si trova nella chiesa di sant'Agostino a San Gimignano. Dal 1588 al 1590, per il cardinale Alessandro de' Medici dipinse quello che è considerato il suo capolavoro, un ciclo di scene della Vita del Cristo nell'Oratorio dei Pretoni, conosciuto anche come oratorio di Gesù Pellegrino, in via San Gallo a Firenze. Tra il 1590 e 1591, di nuovo con il Naldini, lavorò alla decorazione del Duomo di Volterra, per es. dipingendo il Miracolo dei pani e dei pesci nella Cappella Serguidi. La Natività a Volterra è datata 1592. Con il nuovo secolo si trasferì a Napoli, dove fu molto attivo. Vi morì nel 1631.

[2] Archivio di Stato di Modena, Lettere, Fondo Cancelleria Ducale, Serie carteggio Principi-Estero, lettera del 10 ottobre 1598;

[3] dal testamento del card. Alfonso Gesualdo in data 24 ottobre 1600;

[4] Pergamena dei “Benefattori”; 

[5] G. Zigarelli, Storia della Cattedra di Avellino…, vol. II, cap. XXXI Taurasi, Napoli 1856, p. 434.

[6] Antonio Solario (Chieti, 1482-1555), molte città si contendono l'onore di aver dato i natali a questo illustre artista. Nel secolo scorso Ravizza ha condotto un'appassionata difesa di Chieti quale città natale di Antonio Solario, contro eruditi napoletani e veneti. Avviato giovanissimo all'arte del pennello, si affermò ben presto come ottimo frescante. Di lui restano pochissime prove a Chieti, e nessuna di certa attribuzione; Napoli, invece, vanta numerose sue opere e un ciclo intero di affreschi nella chiesa dei Santi Severino e Sossio.  L'appellativo di "Zingaro" gli deriva dal fatto di aver molto girato per le province meridionali al seguito del padre, attivo fabbro e lavoratore del rame.

[7] E. Capobianco-R. de Angelis, in “Vademecum Taurasino per l’anno 1999”, Montoro Sup. 1999, p. 7;

[8] E. Capobianco-R. de Angelis, La Beata Vergine del Rosario, in “Taurasinforma”, n. 08 (2008), pp. 7-8;

[9] Movimento riformatore della vita religiosa e della disciplina ecclesiastica con cui la Chiesa cattolica reagì, nel XVI e XVII sec., alla Riforma protestante.

© per testo e immagini ELIO CAPOBIANCO & RINALDO DE ANGELIS


PER SAPERNE DI PIU'

R. de Angelis e E. Capobianco, La chiesa del ss. Rosario e il Convento in Taurasi, Enciclopedia Taurasina, vol. 1, Delta 3 Ed., stampa Tipografia Ideal, Fontanarosa 2009, pp. 60, cod. ISBN 978-88-6436-021-8