chiesa Collegiata di san Marciano vescovo & confessore


Ubicazione: Largo Duomo, 2

Visitabile: SI

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La facciata della chiesa su piazza Duomo è in parte nascosta dalla possente mole del palazzo Marchionale, poiché gli ampliamenti del 1745 fecero avanzare di molto l'originario fronte della chiesa. Essa si erge al di sopra di un'ampia gradinata (di nove scalini) e presenta una semplice facciata piana delimitata da cornici bianche e sormontata da un timpano al di sopra di un aggettante cornicione. Essa è inoltre arricchita, nella parte alta, da una finestra centrale rettangolare e da due ovali ciechi ai lati, che presentano eleganti cornici in stucco, dalle tipiche forme tardo-barocche a voluta. In basso, invece, vi è il portale d'ingresso in pietra, di raffinata fattura, sovrastato da un timpano ricurvo spezzato che inquadra una nicchia con la sacra effigie del Santo patrono.

 

L’interno è a navata unica, presenta delle cappelle laterali inquadrate da pilastri, ornati da paraste corinzie, che sostengono ampie arcate a sesto acuto; la copertura è a volta. La decorazione conserva l'aspetto settecentesco, che con qualche accenno allo stile tardo rinascimentale, in particolare nelle decorazioni in stucco, vede comunque dominare il gusto barocco, ma in forme sobrie contenute. Dopo la prima cappella a sinistra, dedicata a Maria ss. del Monte Carmelo (del 1747, voluta da d. Leonardo casale) vi è la seconda dedicata al s. Patrono s. Marciano (del 1748), l’unica diversa dalle altre, è abbellita da una grande conchiglia che sovrasta quasi a proteggere la statua del santo (la conchiglia è l’emblema del pellegrino che la usava per raccogliere l’acqua e per posarvi il cibo, il che simboleggiava la sua povertà  e rinuncia ai beni terreni) [1], ai lati le armi dei degli Uberti; subito dopo nella parete si apre la nicchia dedicata a s. Anna. A destra dopo l’entrata vi è l’area del battistero, a pianta circolare, nel quale si svolgeva il rito del battesimo, seguono un trittico di cappelle, dedicate rispettivamente a s. Lucia, s. Francesco da Paola e a s. Teresa del Bambin Gesù, segue un'altra apertura che comunicava un tempo direttamente con il palazzo dei feudatari, che avevano il privilegio di accedere in chiesa senza dover uscire sulla pubblica piazza. Nel 1806, con l'abolizione dei diritti feudali, quest'ingresso fu murato ed i locali esistenti furono adibiti a sacrestia e ad altri usi, segue la cappella di s. Antonio da Padova, poi la nicchia di s. Gerardo Majella. Posta al fondo della navata, è l'abside a pianta semicircolare - fornita di volta stuccata dai quattro Evangelisti, vi sono l’arme del Comune ed in un cartiglio la scritta enigmatica e templare: QUAM TERRIBILIS EST LOCUS ISTE (= “questo è un luogo terribile”)- il presbiterio, la parte circostante l'altare maggiore (del 1747, fatto realizzare da Pietro Uberti), sopraelevata di alcuni gradini e recintata da un’artistica balaustra (del 1852, fatto realizzate da don Giuseppe de Angelis), riservata al clero officiante, presenta ai lati altre due cappelle, dedicate rispettivamente a Maria ss. Ausiliatrice, a s. Filomena, all’Addolorata e Gesù morto, vi è poi la nicchia del Sacro Cuore di Gesù, inquadrata da paraste e semicolonne corinzie in marmo, esse sostengono un'alta trabeazione con fregi che richiamano la decorazione interna in stucco della chiesa. Al di sopra, vi è un timpano spezzato con al centro uno scudo, l’arme della chiesa, il tutto è affiancato dal coro adornato con scranni di legno della metà del XVIII sec., utilizzato anticamente dai sacerdoti che formavano il “collegio”. Alle spalle una porticina immette nel campanile; la controfacciata, precedente ai rifacimenti del 1745, presenta una elegante balaustra in legno pregiato dalla cornice mistilinea, venne utilizzato fino a circa 40 anni fa, oggi è invece in disuso.

 


[1] J.C.COOPER, Enciclopedia Illustrata dei Simboli, s.v. conchiglia, Padova 1987, p. 89.

 

2004
2004

  • CENNI STORICI
lamina dorata del 1150
lamina dorata del 1150

E’ la chiesa cara ai taurasini, sotto la invocazione dello specialissimo patrono san Marciano vescovo, e di altri santi, edificata nel VII sec. d.C. dai Longobardi, quando questi si convertono al cristianesimo, e “vuolsi che il Duomo di questa terra [di Taurasi] si erga sopra le rovine di un tempio pagano […]”[1], dedicato alla dea Cerere, considerata dai romani la protettrice delle messi ed in genere dell'agricoltura, dea quanto mai necessaria a Taurasi, già da allora a spiccata vocazione agricola, dove aveva attecchito una pregiata vite importata dalla Grecia, diventata oggi l'Aglianico; tra il 900-910, viene distrutta dai Saraceni; ricostruita, sul medesimo sito, fu “[…] consagrata da Martino Vescouo di Fricento li 1150 [2] “e a perennare la memoria di un tal fatto ne scrissero una memoria sopra una lamina di rame dorata”[3]. E’ del dicembre 1188, il primo documento conosciuto dove viene citata espressamente la chiesa in onore di s. Marciano (Ecclesia de santo Marciano [sancti Marciani]). In un documento del 1275, si legge: “Giovanna, […] lascia […] alla chiesa di s. Marciano di Taurasi […] come contributo per la Croce d’argento che si doveva fare […], due augustali [...]". La chiesa “[…] Fu rifatta a volta, con ampio coro e marmorei altari, nel 1745 distruggendosi l’antica [in quest’anno infatti si decide di ristrutturare, perché decadente dopo l’ulteriore sisma del 1732 ed ampliare, essendo ormai insufficiente a contenere l’accresciuta popolazione. Essa venne prolungata con l'aggiunta di un'abside che portò alla congiunzione del nuovo edificio al campanile, un tempo isolato], [nel 1747, d. Pietro Uberti fa costruire l’altare maggiore e nello stesso anno d. Leonardo Casale, quello di Maria ss. del Monte Carmelo; l’anno seguente ancora d. Pietro Uberti fa costruire l’altare dedicato a s. Marciano]; […] la qual seconda chiesa fu consagrata nel 1796. La chiesa in disamina è stata sempre ritenuta come collegiata, e tale riconosciuta dal De’ Franchi in quelle della già diocesi frigentina; anzi nella Platea della Mensa arcipretale di Taurasi hassi una fede del 18 marzo 1590 del  primicerio e notajo apostolico Domenico d’Indico, che tanto egualmente contesta. Quando finalmente la collegiata di Taurasi  avesse la sua fondazione ed erezione, ignorasi, mentre la peste del 1656, avendo fatto anche sue vittime la massima parte de’ cittadini, ed i canonici tutti che poneano lor vita pe’ conforti spirituali agl’infelici vinti dal male, essendosi colà recati degli ecclesiastici stranieri a prestare il servizio divino, essi, benché beneficiati di tale chiesa, ritennero gli usi tutti della medesima, ma senza indossare le canonicati insegne. Finalmente monsignor Benedetto Latilla, de’ marchesi di Taurasi, prendendo tutto ciò in seria considerazione nella visita del 1758, richiamò in vigore gli antichi privilegii e statuti per la ripetuta chiesa collegiale, e riconcesse le insegne alle dignità e canonici addetti al suo servizio, consistenti in cappa e rocchetto, venendo a quella parimente aggiunta la così detta coda abbreviata nel 1783, e ciò per opera del vicario capitolare di Frigento Pasquale Mannella. E così la collegiata di che trattasi, per virtù ancora del Sovrano rescritto del 28 giugno 1826, presenta quattordici canonici, sei cioè maggiori, ed otto minori, e tra’ primi vanno compresi anche l’arciprete ed il primicerio […],” [4].

 

Nel 1845, a causa delle intemperie la chiesa subisce gravi danni e ci fu una lite tra l’arciprete ed il decurionato su chi fosse realmente incaricato a farsi carico delle spese di riparazione. Il sacerdote affermava che toccava al Comune, cosa che veniva ovviamente obiettata. “E’ poi un erroneo ragionamento dell’Arciprete di detto Comune il voler far dipendere un tal suppositizio dritto, dal perché si vede lo stemma del Comune appoggiato all’arco di detta Chiesa, il quale costrutto sia per lascivia de’ fabbricatori, sia come è più regolare il pensarlo, per rispetto e gratitudine verso un piccolo Comune, che con tante Pie donazioni fa menar vita lieta a quattordici Canonici, non può certamente stabilirsi un dritto di padronato […].  Che se per poco si volesse far dipendere il padronato dalli Stemmi che esistono nella Chiesa, a miglior dritto il padronato della stessa apparterrebbe alla famiglia Uberti, dal perché si vede il maggiore altare ornato nei due lati da due imprese della stessa famiglia, come sopra ancora quella del Protettore San Marciano, sormontato da uguale stemma, ma non essendovi a prò di alcuno né fondazione in titolo, ne dotazione, ne esercizio di dritto di presentazione, niuno di essi può aver ragione a reclamare il padronato” [5], lite che si protrasse fino al 1847, quando la chiesa venne finalmente aggiustata; nel 1852, l’arciprete d. Giuseppe de Angelis dona un’artistica balaustra; nel 1853, d. Vito Masiello fa rifare il pavimento; un secondo restauro voluto dal parroco d. Giovanni Uberti, effettuato soltanto all'interno, avvenne nel 1895 quando fu dipinta la volta, opera dell’artista Annibale Barchiesi [6], che affresca anche le pareti raffigurando s. Domenico de Guzman, s. Francesco d’Assisi e s. Filippo Neri, inoltre lo stesso artista fece le quattro figure in stucco, che rappresentano i quattro evangelisti, posizionati in simmetria sotto la volta, per il novembre di quell’anno i lavori erano già ultimati se l’avv. Domenico Maffei cantò con 108 endecasillabi sciolti la grandezza della fede in Cristo prendendo proprio spunto dall’apertura al culto della chiesa dopo i necessari restauri effettuati, a seguito del sisma del 1893; nel 1896, grazie alla devozione di cento taurasini residenti negli U.S.A. è dedicato un altare a Maria ss. Ausiliatrice, nello stesso anno il sindaco ff. G. Massa ne dedica un altro a s. Antonio da Padova; il 28 ottobre 1948, d. Guido Bentivoglio vescovo di Avellino dedica l’altare maggiore a s. Marciano vesc.; su di una lapide si legge: “D.O.M. Nella fausta ricorrenza dell’Anno Santo 1950, presente Mons. Pedicini, vescovo di Avellino, il 14 giugno solennemente furono benedetti i restauri di questa vetusta chiesa parrocchiale riportata all’antico splendore, per la fattiva, diuturna ed instancabile opera dell’arciprete don Luigi Liberto che ha fatto suo programma di vita il “Dilexi, Domine decorem domus tuae”, nello stesso anno il pittore Ciriaco D’Indio, affresca le pareti raffigurando s. Maria Goretti; nel 1951 è dedicato un altare a s. Lucia grazie alla devozione della famiglia Caprio; l’8 dicembre 1973 la chiesa subisce notevoli danni da una eccezionale nevicata; nel 1981, vengono effettuati lavori di consolidamento a seguito del sisma del 23 novembre 1980; nel 1992 si verificano ulteriori lavori; il sindaco Antonio Guastaferro, nel 1995, dona un nuovo altare che viene consacrato dal vescovo di Avellino d. Antonio Forte; nel 2015, nuovo restauro; 15 dicembre 2022, riapertura.

 


[1] A.M. IANNACCHINI, Topografia storica dell’Irpinia, vol. 1°, libro VI, Napoli 1889, p. 220;

[2] S. BELLABONA, Raguagli della città d’Avellino, Trani 1656, p. 26;

[3] A.M. IANNACCHINI, cit., vol. 3°, p. 159;

[4] G. ZIGARELLI, Storia della Cattedra di Avellino…, vol. II, cap. XXXI Taurasi, Napoli 1856, pp. 433-435;

[5] Atto del Comune di Taurasi del 12 ottobre 1845;

[6] A. Barchiesi (Roma, 1860 – Avellino, 1933). Valente decoratore e pittore, godeva allora di una indiscussa fama di artista specializzato in stucchi ed in affreschi, realizzò molte opere in Irpinia. A Napoli (1900) fu impegnato in un'opera prestigiosa, la decorazione della Galleria Principe.

  • DA VEDERE
  1. Molto interessanti due porte in legno intagliate. La prima che da accesso alla sacrestia è sormontata dal “Bacco trionfante” un’immagine "blasfema", essendo in un luogo di culto, nella mitologia greca, è il figlio di Zeus e della mortale Semele; dio del vino e della vita naturale, insegnò ai mortali la viticoltura e la vinificazione, è affiancato da due Corni di Amaltea o cornucopie, simboli di fertilità e di generosità sconfinata, essa è un attributo della divinità della vegetazione, della vendemmia e del destino e ancora della dee madri come Demetra/Cerere, Tiche, Fortuna […]; una seconda porta, che da su via Italia, è sormontata dall’arme della famiglia de Angelis.
  2. Il coro settecentesco.
  3. Gli affreschi di Annibale Barchiesi (del 1895)



  • NOTA
  1. I Templari?

La scritta Quam terribilis est locus iste la cui corretta traduzione è "questo luogo incute rispetto" compare sul frontone della chiesa di Santa Maria Maddalena di Rennes-le-Château e in altri edifici religiosi.

L'apparente stranezza della presenza, in un luogo di culto, di una frase che sembra suonare come un ammonimento (questo luogo è terribile), ha prodotto molte ipotesi ed elucubrazioni circa possibili significati arcani ed esoterici.

Il termine latino "terribilis", erroneamente tradotto nell'italiano "terribile", ha anche il significato di "cosa che incute rispetto". Pertanto, si può benissimo tradurre la frase nella seguente maniera: "Questo luogo incute rispetto" o "timore reverenziale". Rimane comunque più chiaro il significato se si prende in considerazione per intero il versetto biblico da cui la frase è tratta. Infatti nel testo originale la frase prosegue dicendo: "Questa è la casa di Dio e la porta del Cielo" (altre parole spesso presenti sugli ingressi delle chiese) e ricorda la visione di Giacobbe della scala che saliva al Cielo. Quindi non solo la frase viene scritta sugli ingressi degli edifici religiosi per incutere timore, ma anche e soprattutto per indicare, rimandando alla visione di Giacobbe, che da qui inizia la "scala" (o il "cammino") che conduce al Cielo.

 

La frase è tratta dall'Antico Testamento (Genesi, 28; 17). In questo passo si racconta come Giacobbe, fermatosi per riposare nella città di Beth-El (che in ebraico significa Dimora di Dio) ebbe in sogno la visione di una scala che saliva dalla Terra al Cielo. Al risveglio eresse in quel luogo una stele che consacrò con queste parole: "Terribilis est locus iste! Haec domus Dei est et porta coeli" (Questo è un luogo terribile! Questa è la casa di Dio e la porta del Cielo).


VISTA DALL'ARTE